In questo momento di lotta all’uso della plastica trovano valore e riconoscimento tutti quei processi e prodotti che consentono di ridurre l’impiego di materie prime vergini. Ciò avviene, tanto più, alla luce dell’esenzione dalla plastic tax prevista per i materiali provenienti da processi di riciclo.
Succede così che la domanda di polimeri riciclati conosca un fermento mai vissuto sino ad ora, e con essa l’offerta di manufatti con essi realizzati.
Ma cosa si intende per “riciclato”? Quali “claim” ambientali sono corretti?
È necessario innanzitutto chiarire un grande equivoco generato da decenni di prassi consolidate e da terminologie nate prima delle definizioni ufficiali: il cosiddetto “riciclo interno” non è vero riciclo, e ciò vale anche per tutti quei materiali “residui” che escono da un sito produttivo senza formulario.
Perché? Perché per le definizioni di legge vigenti in Italia e in Europa soltanto i rifiuti sono la “materia prima” del processo di riciclo: “riciclaggio” è “qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i rifiuti sono trattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini” (cfr. art. 183 c.1 lett. u) dlgs 152/2006).
Se davvero tutti gli operatori che effettuano “riciclo interno” (ovvero, in genere, la semplice riduzione volumetrica dei propri rifili, ritagli, materozze, ecc.) facessero un’autentica operazione di riciclo, significa che questi residui di produzione dovrebbero essere gestiti come rifiuti, e il sito aziendale dovrebbe essere autorizzato!
Sappiamo che la realtà è ben diversa: il riciclo è effettuato presso una serie di impianti autorizzati in cui entrano rifiuti e da cui escono materie prime seconde, mentre i residui di lavorazione – se correttamente gestiti come sottoprodotti ai sensi dell’art. 184-bis del Codice Ambientale – possono essere riutilizzati internamente all’azienda di trasformazione (o anche da soggetti terzi) senza alcuna necessità di autorizzazione al trattamento dei rifiuti.
Ma cosa sono i sottoprodotti? Sono dei “non rifiuti” per natura (e per legge!), non lo sono mai stati per scelta del legislatore, che ha voluto favorire il reimpiego di materiali già lavorabili senza bisogno di particolari passaggi burocratici e operazioni (se non quelle afferenti alla “normale pratica industriale”), riducendo così la produzione di rifiuti e il ricorso a materie prime.
La diversa natura di sottoprodotti e materiali riciclati è sancita anche dal trattamento ad essi riservato dalle norme UNI 10667, che rappresentano l’end of waste in vigore per le materie plastiche: se per le materie prime seconde le norme della serie (ben 18) indicano prove e parametri da rispettare al fine di classificarle e qualificarle come tali, per i sottoprodotti ci si limita a un generico riferimento soltanto nella parte 1, al fine di offrire uno strumento tecnico che permetta di agevolare la distinzione tra le due fattispecie. Così diverse che devono essere anche designate e marcate in modo differente: la semplice sigla del polimero per i sottoprodotti, la sigla del polimero preceduta da “R-” per le materie prime seconde.
Di conseguenza tutti i materiali che non sono mai stati rifiuti non possono essere definiti “riciclati”.
Se la legislazione vigente non bastasse, si tenga presente che anche la norma UNI EN ISO 14021 (lo standard internazionale che disciplina e regola le asserzioni ambientali auto-dichiarate) esclude i quantitativi di materiali reimpiegati internamente dal computo del contenuto di riciclato.
L’argomento è delicato, e l’urgenza del momento non deve far dimenticare che è strettamente necessario attenersi alle regole anche nella comunicazione e nel marketing…e le recenti multe comminate dall’AGCM dimostrano che anche le parole hanno un peso.