CIRCOLARE
Quella bufala della messa al bando dei sacchetti in plastica

Quella bufala della messa al bando shoppers non biodegradabili

Nell’ambito della Legge Finanziaria per il 2007, tra le disposizioni per lo Sviluppo e la Ricerca, è stato previsto l’avvio di un programma sperimentale a livello nazionale per la progressiva riduzione della commercializzazione degli shoppers in plastica non biodegradabili. Nello specifico, il comma 1129 dell’art. 1 “Programma sperimentale riduzione commercializzazione di sacchi non biodegradabili”, dispone che: “Ai fini della riduzione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, del rafforzamento della protezione ambientale e del sostegno alle filiere agro-industriali nel campo dei biomateriali, è avviato, a partire dall’anno 2007, un programma sperimentale a livello nazionale per la progressiva riduzione della commercializzazione di sacchi per l’asporto delle merci che, secondo i criteri fissati dalla normativa comunitaria e dalle norme tecniche approvate a livello comunitario, non risultino biodegradabili“.
Il successivo comma 1130 precisa la finalità del suddetto programma sperimentale, disponendo che “Il programma di cui al comma 1129, definito con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, e con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, da adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, è finalizzato ad individuare le misure da introdurre progressivamente nell’ordinamento interno al fine di giungere al definitivo divieto, a decorrere dal 1° gennaio 2010, della commercializzazione di sacchi non biodegradabili per l’asporto delle merci che non rispondano entro tale data, ai criteri fissati dalla normativa comunitaria e dalle norme tecniche approvate a livello comunitario“.
Tale termine ultimo è stato poi (non a caso, come vedremo più avanti) oggetto di rinvio di un anno (1° gennaio 2011), nel contesto del provvedimento cd. Milleproroghe, dello scorso luglio.
Quale dotazione per l’avvio del programma di cui ai commi 1129 e 1130 “è destinata una quota non inferiore a 1 milione di euro a valere sul “fondo unico investimenti per la difesa del suolo e la tutela ambientale” del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare” (comma 1131, art. 1 l. n. 296/06). La quota stanziata è dunque finalizzata a promuovere il finanziamento esclusivo di progetti e interventi, in ambito nazionale, atti a ridurre progressivamente la commercializzazione (e si presuppone anche la produzione, sebbene non specificato) degli shoppers non conformi ai criteri comunitariamente fissati.
Ad oggi il programma previsto dalle norme richiamate non ha trovato avvio, non essendo stata adottata la decretazione ministeriale che avrebbe dovuto indicare uniformi misure, tecnologie e procedure che avrebbero dovuto condurre l’ordinamento italiano al definitivo abbandono dei sacchi da asporto non biodegradabili entro il gennaio del 2011, secondo un programma, definito per l’appunto sperimentale, della durata di poco meno di un triennio.
In Italia, con la Finanziaria 2007, è stato dunque dichiarato l’obiettivo di escludere l’utilizzo dei sacchetti in polietilene finanziando allo stesso tempo con un milione di euro progetti tesi a sviluppare nuove soluzioni con biopolimeri, da ricondurre ad una specifica regolamentazione, i cui decreti attuativi pur tuttavia ad oggi non risultano ancora emanati, tant’è che la norma pare incompleta nel suo contenuto precettivo.
Non di meno, perplessità suscita il dettato normativo in esame, specie in assenza della decretazione attuativa del divieto che avrebbe dovuto delineare idonee modalità e tecnologie di progressivo utilizzo di shoppers biodegradabili, per aspetti di dubbia costituzionalità nell’imposizione del divieto di cui trattasi, in rapporto al fine perseguito dalla norma, sotto il profilo della violazione delle norme costituzionali a tutela della garanzia del diritto di iniziativa economica, in condizioni di parità di trattamento tra le imprese, oltre che della violazione della disciplina comunitaria e nazionale a tutela della libertà della concorrenza. La norma parrebbe dunque perseguire una determinata tutela (la riduzione dei livelli di anidride carbonica nell’atmosfera, il rafforzamento della protezione ambientale e del sostegno alle filiere agroindustriali) che, sebbene certamente meritevole di essere ricercata, interviene a discapito di una certa categoria di soggetti e di prodotti.
La programmazione sperimentale di cui alle disposizioni normative dei commi 1129 e 1130 avrebbe dovuto quindi fissare specifiche modalità per il progressivo utilizzo di nuovi materiali anche al fine di mitigare i non trascurabili profili di iniquità e ingiustizia ed i rilevanti effetti economici sull’andamento del mercato che l’innovazione in programma porta con sè, in maniera tale da evitare preoccupanti e non improbabili distorsioni della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato.
Sebbene non possano essere evitati interventi legislativi volti ad indicare le caratteristiche prestazionali di un manufatto, comprese quelle ambientali, non pare ammissibile imporre in modo ingiustificato di sostituire o abbandonare un materiale in assenza di opportune cautele di ordine tecnico ed economico.
Va poi ricordato che la norma di cui alla Finanziaria ’07 trae ispirazione da un decreto francese che è stato infirmato dalla Commissione UE nel 2007 con apposita procedura di infrazione inoltrata al Governo francese, aspetto, quest’ultimo, che ha portato alla disapplicazione della norma avente ad oggetto la messa al bando dei sacchetti di plastica.
La procedura di infrazione ad opera della Commissione Europea è stata definita sulla base di un disallineamento tra il decreto francese e la direttiva UE 94/62 (packaging & packaging waste).
Anche la Spagna avrebbe rinviato al 2015 la fase di start up della normativa in materia.
Quanto sopra ha con tutta probabilità sconsigliato al nostro legislatore di procedere con una norma palesemente in contrasto con le direttive comunitarie in materia.

Ora, l’assenza della decretazione attuativa del disposto normativo parrebbe rendere non “attuale”, non immediatamente efficace, per incompletezza del contenuto precettivo, il divieto di commercializzazione dei sacchi non biodegradabili a decorrere dall’1.1.2011.
Così pare emergere prime facie dal testo di legge: non sembra invero che la norma, teleologicamente letta, riesca a fornire elementi per poter giungere ad una diversa interpretazione della stessa, idonei a far ritenere che il legislatore intendesse imporre un simile divieto a prescindere dalla prescrizione di uniformi tecnologie da indicare alle imprese nazionali.
La norma invero non pare imporre tout cour un divieto di commercializzazione dei sacchi non biodegradabili, né il testo pare poter essere letto in questa direzione; le richiamate disposizioni, secondo una logica organica e realistica che tiene conto delle conseguenze che un simile divieto comporta, pare bensì prescrive l’avvio di un programma sperimentale finalizzato a raggiungere un determinato obiettivo, il definitivo divieto di cui si è detto, subordinando la programmazione sperimentale all’adozione di specifici decreti attuativi, mai adottati.
Ciò anche per ragioni di ordine tecnico e di natura pratica: non è difatti ipotizzabile passare nell’immediato dall’utilizzo dei sacchetti tradizionali a quelli in biopolimero, carta o cotone, dovendosi procedere gradatamente, ricercando risorse, utilizzando i fondi appositamente stanziati per la ricerca e sfruttando il tempo intercorrente per avviare un processo graduale di sostituzione.
Se da un lato, sotto il profilo della sostenibilità, il programma ipotizzato dalla Finanziaria 2007 rappresenta un passaggio positivo, dall’altro, lo stesso deve comunque risultare concretamente perseguibile.
E non pare invero che il legislatore abbia voluto trascurare le non poche difficoltà che il divieto in parola comporta.
Ed anzi, questo parrebbe, per l’appunto, avere voluto rimettere alla specifica decretazione interdisciplinare la regolamentazione del passaggio de quo, così da renderlo concretamente ed efficacemente attuabile, alla luce di tutta una serie di problemi, tra cui l’adeguamento della capacità produttiva, l’accertamento delle effettive caratteristiche di lavorabilità dei nuovi materiali, il nodo dei costi di conversione degli impianti di sacchettame e dell’acquisto del biopolimero rispetto alle resine derivanti dal petrolio, l’accertamento delle caratteristiche igienico-sanitarie dei sacchetti biodegradabili, nonché quelli, non meno rilevanti, riguardanti la messa a punto degli impianti, la compatibilità ambientale e il riciclaggio.
La disciplina di dettaglio viene dunque dal legislatore nazionale espressamente ricondotta alla decretazione ministeriale, espressione di una potestà normativa attribuita all’amministrazione; in ragione di ciò, a mente del combinato disposto di cui all’art. 1, commi 1129 e 1130, l. 296/06, la piena efficacia e vigenza del divieto di commercializzazione dei sacchi non biodegradabili parrebbe doversi ritenere rimessa all’adozione della successiva regolamentazione attuativa.
Il legislatore, dunque, nell’ambito, si badi bene, delle disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale (e non della specifica materia), ha manifestato l’esigenza di procedere all’avvio, a livello di normazione attuativa, di una programmazione sperimentale finalizzata all’individuazione di elementi destinati ad incidere in modo sostanziale sulla futura commercializzazione di sacchi biodegradabili: l’individuazione di misure da introdurre progressivamente nell’ordinamento al fine di giungere al definitivo divieto, secondo l’esigenza, normativamente tutelata, di riduzione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, del rafforzamento della protezione ambientale e del sostegno alle filiere agro-industriali nel campo dei biomateriali.
Trattasi evidentemente non di implicita ingiustificata proroga sine die, ma di requisiti che il nostro ordinamento ha ritenuto necessario specificare per poter garantire un valido, controllabile e “sano” mutamento delle forme di commercializzazione – quindi anche di produzione – dei sacchi per l’asporto delle merci, al fine di incentivare tecnologie innovative e utilizzi c.d. “puliti”, prefissare con certezza criteri uniformi, nel delicato passaggio dall’utilizzo di shoppers in plastica agli shoppers in materiali alternativi biodegradabili (se non anche compostabili), senza al contempo provocare ingiustificate restrizioni alla concorrenza.
La necessità di predisporre misure standard e generalizzate appare oltretutto coerente con il fine di soddisfare l’esigenza di riduzione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, del rafforzamento della protezione ambientale e del sostegno alle filiere agro-industriali nel campo dei biomateriali, secondo forme garantistiche di efficienza e corretto funzionamento: solo una programmata sostituzione dell’attuale produzione di shoppers, ovvero assistita da previi ed uniformi studi e sviluppi delle migliori tecnologie, pare poter garantire l’effettivo bando dei sacchetti non biodegradabili, il contenimento dei costi per i soggetti coinvolti, il raggiungimento di più alti livelli di qualità del servizio e, conseguentemente, di tutela dell’ambiente.
La lettera delle disposizioni sopra richiamate porta, pertanto, a ritenere che il legislatore abbia voluto regolamentare l’abbandono dei sacchi da asporto non biodegradabili secondo una puntuale disciplina, ove l’attività ministeriale si colloca a monte del divieto di commercializzazione di sacchi da asporto non biodegradabile.
Il programma definito con decreto ministeriale, ai sensi del comma 1130 art. 1 Legge Finanziaria 2007, non pare dunque riconducibile alla categoria degli atti amministrativi generali, in quanto destinato a delineare, integrando il dettato normativo primario, una complessa disciplina, con precetti aventi i caratteri della generalità e dell’astrattezza del tipo dei regolamenti attuativi o integrativi (non si tratta di meri adeguamenti, elencazioni o fissazione di importi). A nulla poi rilevando in contrario la circostanza, meramente formale, della mancata attribuzione al decreto in questione della denominazione di regolamento, dovendosi avere essenzialmente riguardo, ai fini del riconoscimento di detta natura, al contenuto che dovrà possedere l’atto.
A differenza degli atti e provvedimenti amministrativi generali – che sono espressione di una semplice potestà amministrativa e sono rivolti alla cura concreta d’interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili -, i regolamenti sono espressione di una potestà normativa attribuita all’Amministrazione, secondaria rispetto alla potestà legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa rispetto all’ordinamento giuridico esistente, con precetti aventi i caratteri della generalità e dell’astrattezza” (Sez. U., sent. n. 10124 del 28-11-1994).
Nella specie, il divieto di commercializzare shoppers in plastica a decorrere dall’1.1.2011 è sì previsto dalla norma finanziaria la quale, poi, però rinvia, per l’integrazione del precetto, ad una fonte secondaria.
Le norme primarie sopra ricordate, difatti, paiono impedire la diretta imposizione del divieto, mancando oltretutto di specifica irrogazione di sanzione, per effetto di disposizioni contenute in fonti normative secondarie, consentendo solo, per converso, che i precetti (individuati, comunque, in modo sufficiente dalla legge) vengano eterointegrati dalle norme regolamentari delegate (in ragione della peculiare tecnicità della dimensione in cui la fonte secondaria è chiamata ad operare, atteso il continuo sviluppo delle tecnologie nel settore della plastica e delle fonti alternative).
Non di meno, pare confermare la natura della previsione in commento quale enunciazione di principio anche la sua collocazione nell’ambito della normativa finanziaria, tipica legge di indirizzo politico (MARTINES).
Ormai sempre più comune è la prassi normativa di ricorrere a compendii di regole formati per soddisfare esigenze di disciplina che scaturiscono o dall’organizzazione politica o da specifiche materie caratterizzate da un elevato grado di tecnicismo o da settori animati da plurimi interessi sociali.
Il potere di emanare norme regolamentari è quindi sempre più spesso condizionato alla volontà esplicita del legislatore che un proprio testo normativo sia completato o integrato o specificato da un regolamento.
È questa l’ipotesi dei c.d. regolamenti esecutivi o attuativi (come pare essere quello previsto dalla normativa finanziaria in argomento): in questo caso, invero, le leggi prevedono l’emanazione di regolamenti di esecuzione o attuazione e condizionano talora la loro entrata in vigore o, comunque, la loro piena esecutività ad una tale emanazione. Ciò accade soprattutto quando la legge affida all’Amministrazione il compito di formulare parametri tecnici e indici di comportamento per il compimento di attività disciplinate ovvero l’integrazione di disposizioni di legge mediante l’acquisizione di dati da rilevare in modo specifico e in se stessi mutevoli in determinati lassi di tempo.
Orbene, dunque, ove la decretazione regolamentare viene posta in relazione ad una legge che contiene norme di principio o generali, è il regolamento che attrae a sé la produzione normativa; in questa ottica i principi posti dal legislatore si dirigono all’attività interpretativa che presuppone la normazione mediante regolamento.
In ogni caso, è indubbio come legislazione per principi e formazione per regolamenti vadano ad integrare un processo normativo complesso, nel quale il regolamento, se sorretto dalla legittimità e dalla forza del governo, condiziona più da vicino e con maggiore intensità la produzione delle regole .
Si assiste dunque ad un fenomeno di integrazione, dove le disposizioni dell’una e dell’altra parte non possono distaccarsi a tal punto tra loro da mettersi in conflitto, secondo un ordine gerarchico e di preferenza, venendo a delineare un “allacciamento” di tipo sostanziale.
È interessante notare, analizzando più da vicino il recente e sempre più diffuso ricorso alla potestà regolamentare, come l’impulso alla formazione di detta fonte non provenga tanto dall’autorità, neppure sotto forma di direttiva o legge di indirizzo, ma dal determinarsi di circostanze per le quali la responsabilità dei soggetti operatori richiedono, onde essere individuate, una preventiva tavola di criteri o di principi. Sono insomma fonti che si legittimano su necessità di disciplina e sono imposte dall’esperienza e dalle sempre mutevoli e più sofisticate forme che questa prende nella sua rapida mutazione, per effetto di bisogni generalizzati e dell’omogeneità di fondo degli strumenti occorrenti per soddisfarli.
La specialità della formazione secondaria occorre dunque a definire regole di condotta e relative responsabilità degli operatori diversamente non decifrabili concretamente.
Orbene, alla luce di quanto esposto, pare potersi affermare che solo ove, in attuazione dei fini di legge ed in forza della delega alla normazione dalla legge stessa conferita, venissero disciplinate con specifico regolamento ministeriale nella forma del d.m. le progressive misure di cui al comma 1130 art. L.F. in esame, il conseguente precetto ivi contenuto (divieto di commercializzare sacchi da asporto delle merci non biodegradabili) sarebbe idoneo ad integrare quello legale, sì da formare la norma incriminatrice “finale”, la cui violazione potrebbe, pertanto, rettamente essere accertata e sanzionata (nei termini che l’ordinamento vorrà fissare) dall’autorità amministrativa e giudiziaria.

Ulteriori considerazioni sul tema.

Buona parte della campagna mediatica sul tema “shoppers/messa al bando” sottolinea come la norma in parola (la Legge Finanziaria 2007, art. 1, commi 1129 e 1130) sarebbe il frutto del recepimento a livello nazionale della “direttiva Comunitaria EN 13432”.
Precisiamo che la norma tecnica EN 13432 non è affatto una direttiva bensì, appunto, uno standard europeo volontario dal titolo Packaging. Requirements for packaging recoverable through composting and biodegradation. Test scheme and evaluation criteria for the final acceptance of packaging.

Non si comprende poi la ratio di istituire un divieto nell’utilizzo di shopper di plastica: il Titolo II del Dlgs 152/06 (cd. Codice Ambientale) ha come finalità quello di prevenire e ridurre l’impatto ambientale dei rifiuti di imballaggio ma, al tempo stesso, deve garantire il funzionamento del mercato e prevenire, quindi evitare, l’insorgere di ostacoli agli scambi, nonché distorsioni e restrizioni alla concorrenza.
Un intervento così grave, quale quello di cui alla norma in oggetto, deve far supporre la necessità di un intervento a fini di precauzione che eviti un danno grave, immediato e irreparabile all’ambiente.
Il polietilene è un materiale che non provoca certo danni di tale entità, anzi, è il polimero più riciclato e più riciclabile.
Nello specifico il sacchetto in plastica utilizzato dal consumatore per l’asporto di merci non ha nemmeno un impiego temporalmente limitato ma un uso ripetuto e una destinazione finale alla raccolta dei rifiuti domestici.
In suo assenza, invece, si provocherebbe un uso “limitato” di sacchettame specifico per il solo conferimento dei rifiuti.
Il consumatore fa un uso razionale di questo criticato manufatto, lo impiega più volte per il suo uso primario, garantisce la tutela di norme igienico-sanitarie contenendo i rifiuti (si pensi a quali risvolti sulla salute umana ci sarebbero stati se durante la recente emergenza ambientale i napoletani non avessero potuto isolare i propri rifiuti nei sacchetti di plastica), è oggetto di riciclo da parte del sistema consortile Conai.
I produttori di questo imballaggio versano infatti un rilevante contributo economico (a Conai, appunto), prelevato per scopi ambientali.

Il ciclo di vita di un sacchetto in polietilene è stato di recente analizzato da ADEME (l’agenzia francese per la protezione dell’ambiente), che ha effettuato un LCA, secondo le norme ISO, per i sacchetti per la spesa. Lo studio è stato commissionato da Carrefour, impegnato nello sviluppo di un mercato sostenibile, per quantificare gli impatti ambientali dei quattro tipi di sacchetti attualmente a disposizione della clientela del gruppo.
Tale studio ha considerato otto indicatori: consumo di energia da fonti non-rinnovabili, consumo di acqua, emissioni di gas serra, acidificazione atmosferica, produzione di ossidanti fotochimici, eutrofizzazione, produzione di residui solidi, rischio connesso all’abbandono nell’ambiente.
Lo studio ipotizza che un sacchetto in polietilene venga riutilizzato almeno 4 volte, comparando il predetto in polietilene con gli analoghi shoppers in carta e in biopolimeri.
Per gli 8 indicatori considerati nella valutazione di ADEME si evince che il sacchetto in PE (polietilene) è risultato migliore degli altri monouso (in biopolimeri ed in carta) con riferimento al consumo di energia, di acqua, di emissioni di gas serra ed alla produzione di rifiuti.

Passando alla giurisprudenza, pare opportuno segnalare che nel 1999 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust) aveva deliberato l’invio di una segnalazione al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della Giunta regionale e al Presidente del Consiglio regionale della Toscana in materia di “Norme per la gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti inquinati” previste dalla legge della regione Toscana del 18 maggio 1998, n. 25.
La Regione Toscana, con detto provvedimento, aveva previsto la messa al bando della stoviglieria monouso in plastica nelle mense regionali, comunali e provinciali, imponendo l’impiego di stoviglieria tradizionale in ceramica.
In detta segnalazione l’Autorità aveva sostanzialmente ravvisato alcune restrizioni della concorrenza derivanti dall’art. 4, comma 3 della succitata legge, ritenendola “sproporzionata rispetto al perseguimento dell’interesse alla tutela ambientale” e pertanto eccessivamente gravosa per le imprese produttrici di stoviglieria monouso.
La norma fu ritirata.